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Il Messico in Messico

7/8/2018

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Anche se preferiremmo non parlarne, siamo nel bel mezzo dello svolgimento dei Mondiali di calcio e non potendo tifare gli Azzurri intenti ad abbronzarsi a Formentera, è necessario trovare una squadra da sostenere o quantomeno per cui simpatizzare.
Escluse le storiche rivali e le squadre simpatiche a chiunque, tra quelle rimaste la scelta è facile: il Messico! E perché non gustarsi il Messico in Messico?
Se sei a San Diego, hai a pochi minuti di auto il confine più trafficato del mondo, ovvero quello che divide l’ultima città californiana con il primo avamposto messicano al di là del “muro”, non che la quarta città più pericolosa del mondo: Tijuana.
Messico - Germania è la prima partita del girone e quindi con due tedeschi al seguito si
parte per un breve lunghissimo weekend messicano di calcio e cibo.
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Durante un viaggio, attraversare via terra una frontiera è un’esperienza di per sé significativa, figurati se si tratta di quella più trafficata al mondo con quasi 100 mila tra pedoni e auto che superano il confine ogni giorno.
Le alte barriere non saranno ancora il muro di cemento promesso da Trump, ma di certo segnano con forza il passaggio tra questi due paesi e dopo aver compiuto pochi metri ci si ritrova in un mondo totalmente a parte.
Siamo abituati a compiere lunghi viaggi in aereo per trovare condizioni tanto diverse dalle nostre, qua bastano poche centinaia di metri per ritrovarsi in quelle atmosfere dal sapore rilassato, pericoloso, trasandato, di libertà, che tanto piacciono ai viaggiatori amanti dell’esotico.
Anche se sui taxi si sale in sette e in pochi rispettano i semafori, anche qua esiste Uber e con una corsa dal prezzo irrisorio si raggiunge in mezzora d’auto Rosarito, località marittima tanto amata dai messicani di Tijuana quanto dagli statunitensi al di là del confine.
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Non siamo di certo nel vero Messico, di cui questa cittadina è più una copia sbiadita formato turista, ma comunque anche a Rosarito si riesce a gustare un ottimo pranzo a base di zuppa di fagioli e squisita carne alla griglia accompagnata da patata al cartoccio e salsa guacamole, quella vera.
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Nonostante la giornata uggiosa, la visita alla spiaggia è d’obbligo, ma non aspettatevi paradisiache calette con acqua cristallina, piuttosto una lunga striscia di sabbia su cui si susseguono bar che promettono sbronze facili ai giovani americani, capanni noleggiabili per organizzare picnic tra amici e decine di cavalli e pony da poter cavalcare sull’arenile.
La musica è fortissima, ogni locale cerca di sovrastare il vicino, i venditori sono centinaia e i “butta-dentro” agguerriti più che mai.
Non è il paradiso che ci si aspettava, meglio allora far ritorno a Tijuana per dedicarsi alla
cena.
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Dopo il solito assaggio di chips di tortillas con salse dal molto piccante al piccantissimo, la protagonista della serata si chiama Cochinita pibil taquitos, ovvero un piatto tradizionale proveniente dallo Yucatan a base di maiale arrostito lentamente, dopo essere stato marinato. Piccole tortillas in cui racchiudere la carne e una purea di fagioli accompagnano il piatto. Il maiale a straccetti è ricco di aromi: si sentono gli agrumi in cui è stato fatto marinare e le spezie che lo arricchiscono.
A pochi metri dal nostro tavolo la griglia dà bella mostra di sé ed accanto una signora prepara tortillas e quesadillas. Che bello il Messico!
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L’indomani è finalmente il giorno della partita. I pareri dei messicani sono discordi: c’è chi pronostica vittorie memorabili con larghi divari e chi disfatte epiche. “Il nostro allenatore è imbarazzante e loro sono i campioni del mondo, quindi…” oppure “Tre gol della Seleccion!”. Ben presto si capisce come pare quasi di essere in Sud-America. Qui infatti il calcio è un’ossessione, una religione, come potrebbe accadere in Argentina o Brasile.

Sono le 7.30 di domenica mattina. Strade deserte e bar strapieni. Ogni messicano sembra essere davanti al televisore ed i più indossano la memorabile maglietta verde.
Individuato il locale in cui vedere la partita, entriamo ed i due tedeschi sono accolti nel ristorante da risatine e qualche commento una volta resa nota la loro provenienza.
Il clima è di quelli giusti insomma.
La partita inizia, e poco dopo, portata da un cameriere con la divisa della nazionale e ridacchiante, arriva al tavolo la colazione: Huevos rancheros con patate al forno, fagioli e salsa a base di pomodoro, il tutto sopra ad una tortilla. Le fried eggs americane col bacon sono nulla in confronto a questa delizia, non a caso si tratta di uno dei più classici e tipici piatti della colazione messicana.
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​È talmente gustoso che la partita passa in secondo piano, se non che al 35’ un boato interrompe il riempimento con fagioli e uova di una tortilla: il Messico ha segnato! I tedeschi (sicuri della vittoria) sono increduli ma chiaramente ricordano come manchi ancora quasi un’ora di gioco alla fine. Gli animi sono comunque caldi, l’entusiasmo totale e l’atmosfera si fa molto interessante.
Il secondo tempo passa liscio per i nostri amici messicani, che a fine partita si liberano in un grido di gioia probabilmente inaspettato.
Poco dopo si iniziano a sentire i clacson delle auto. Le strade si popolano di bandiere e la
festa ha inizio.
Di certo questa colazione rimarrà impressa a lungo nei ricordi dei messicani ma anche di noi che abbiamo scoperto dell’esistenza dell’huevos rancheros gustato nell’atmosfera magica del tifo messicano.
Ma forse per i tedeschi le uova saranno l’unico ricordo bello di questo weekend…ops, di
questo Mondiale.
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Fuerteventura - Tra misteri, Californiani e tapas.

6/17/2018

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Lo sappiamo tutti che il paradiso del pensionato medio italiano ha una collocazione ben precisa. Si trova nell'Oceano Atlantico al largo delle coste marocchine, dove, sotto un sole africano, sventola la bandiera spagnola delle isole Canarie.
Qui il clima è mite tutto l’anno: a gennaio si va in spiaggia, mentre ad agosto si fa a meno dell’aria condizionata. Ok, probabilmente è il paradiso ideale non solo per i pensionati ma per un po’ tutti noi.
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Dell’arcipelago Tenerife è l’isola più celebre poiché la prediletta dai vacanzieri e dai nonni in fuga dall’Italia, ma quella più affascinante probabilmente è Fuerteventura.
Perché affascinante? Innanzitutto per la sua diversità racchiusa in una porzione di terra tutto sommato ridotta: in un’ora e mezza di auto la percorri da nord a sud attraversando paesaggi sempre diversi ma ogni volta davvero emozionanti.
Spiagge con acqua cristallina e dalle atmosfere che portano alla mente quelle di Formentera, si alternano a chilometriche strisce di sabbia sferzate da venti costanti e decisamente insostenibili a meno che tu non sia un kitesurfer.
La spiaggia oceanica più suggestiva è senza dubbio quella di Cofete. Si raggiunge dopo un tortuoso e non breve percorso in fuoristrada a strapiombo sul mare, poco adatto ai deboli di cuore. Ma le fatiche alla guida saranno ripagate da una visione quasi mistica una volta giunti alla spiaggia.
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Qui un piccolo cimitero racchiuso da bassi muretti e con croci senza nome semi sommerse dalla sabbia fa quasi rabbrividire mentre un vento costante muove il mare e le nuvole cupe nel cielo.
Le leggere alture scendono nel mare ed in posizione soprelevata rispetto alla spiaggia si trova una villa sfarzosa non più abitata ed avvolta dal mistero. La posizione soprelevata ne attira l’attenzione e la curiosità è tale che presto si abbandonerà la sabbia per incamminarsi sulla strada sterrata che porta alla villa.
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​Fatta costruire da Gustav Winter durante la seconda guerra mondiale, pare fosse un luogo segreto utilizzato come base d’appoggio dall’esercito nazista. Lo stesso Winter è una figura alquanto misteriosa. Pare, infatti, essere stato un’agente segreto del Terzo Reich con base sull’isola, ma non abitò mai in questa grande casa dalla vista mozzafiato da lui voluta.
Tunnel sotterranei portano dalla villa alla spiaggia, che veniva usata quale base d’appoggio per i sottomarini tedeschi; mentre la torretta della casa pare fosse un vero e proprio faro segnaletico per gli aerei del Reich.
Quest’alone di mistero è palpabile, si respira un’atmosfera diversa in questa spiaggia
oceanica così sperduta e lontana dal resto dell’isola.
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Ma Fuerte non è solamente l’isola cupa di misteri irrisolti, anzi, è più che altro l’isola del divertimento, quello sano, ad esempio, dei surfisti di Lajares che si svegliano all’alba, caricano le tavole sui loro vecchi pickup e corrono a caccia di onde ad El Cotillo.
Non è un caso che in questi paesi a nord dell’isola hanno realizzato le proprie ville personaggi celebri del mondo californiano del surf. Molti statunitensi patiti degli sport acquatici con tavola hanno, infatti, scelto quest’isola quale loro base europea. E se il vento costante e le onde invitanti non bastassero, i ristorantini vista oceano ed i locali che servono birre ghiacciate da accompagnare alle papas arrugadas (o patate canarie) oppure ai chipirones (piccoli calamaretti fritti) hanno senza dubbio spinto ulteriormente gli abitanti di Malibù a comprar casa in quest’isolotto spagnolo.
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Le dune di Corralejo sono un promemoria chiaro: il Sahara non è tanto distante! Ma sono soprattutto un luogo stupendo in cui passeggiare ed osservare le nuvole correre nel cielo prima di tuffarsi nel mare in cui le dune si gettano.
Chiaramente non possono mancare i vulcani, che rendono il paesaggio dell’interno irregolare, oltre che fertile.
In una sola giornata puoi rotolarti giù dalle dune, fare il bagno in piccole calette lontano da tutto, scalare vulcani non più attivi e surfare alcune delle onde più belle che si possano trovare in un paese europeo.
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Tutta la ricchezza di paesaggi e la diversità di situazioni presenti sull’isola la si ritrova anche seduti a tavola all’ora di cena. Agnello e formaggio Majoreno (di capra) capeggiano nei ristoranti dell’entroterra, mentre a pochi chilometri di distanza nei menù dei ristoranti dei pescatori del porto di Corralejo si alternano piatti di pesce sublimi. Si va dal pescato del giorno, tra cui dei gambas gustosissimi, ai piatti e tapas più classici della tradizione spagnola. La paella è sempre ottima ed il pulpo a la gallega è un’abitudine quotidiana insieme ad un buon vino bianco canaro, mentre l’insalata russa in versione iberica, ovvero con tonno e uova e ciò che vorresti poter mangiare anche una volta tornato a casa.
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Fuerte è un’isola che si vive in ogni sua parte, respirando l’oceano sotto un sole intenso o osservando le milioni di stelle dalla sommità di un’altura in una notte d’agosto resa fresca dall'intensa brezza, calvalcando le onde fino al tramonto o guidando per strade deserte su tornanti vista oceano.
Non importa se sei uno sportivo, un pigro spiaggiato sulla sdraio, un amante delle dune sahariane o un cultore di vulcani: questa sarà in ogni modo l’isola perfetta per te, anche se non sei ancora diventato nonno e sei solamente un nipote. Ma sopratutto qua ci sarà sempre un pulpo a la gallega ad attenderti per cena.
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Innamorarsi a Verona

6/3/2018

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Nel cuore di ogni milanese ci sono tre amori fondamentali per: il fatturare, la Madonnina del Duomo ed il risotto giallo (o risotto alla milanese).
Se sei di Milano nasci con già dentro di te l’amore per questi tre pilastri della milanesità e sarà davvero complicato far spazio ad altri amori, tradendo quelli originari.
Ma talvolta anche un sentimento innato può vacillare… E probabilmente non sarà un caso
se motivo del tradimento verrà proprio dalla città dell’Amore.
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A Verona, infatti, tra l’affollatissimo balcone di Giulietta, l’Arena celebre in tutto il mondo ed un centro storico tra i più belli d’Italia, ci si può innamorare, sia nei suoi vicoli che seduti a tavola.
Ad esempio a Castevecchio, l’antico castello cittadino ora adibito a museo, sarà facile innamorarsi delle opere esposte (alcune delle quali trafugate qualche anno fa e poi rinvenute) ma soprattutto del restauro e dell’allestimento eseguiti da Carlo Scarpa, architetto poco conosciuto ai più ma tra i migliori progettisti italiani di sempre.
Chiunque visiti questi spazi non potrà non innamorarsene, con le imponenti sale che si alternano a stretti passaggi, dettagli curatissimi, scale dalle forme uniche e terrazze che offrono scorci stupendi. È un luogo in cui amare l’architettura, la storia e questa città risulterà davvero semplicissimo.
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Esiste poi uno spazio, celato e meno noto di Piazza delle Erbe o del Teatro Romano, che riuscì a far innamorare persino Goethe.
Dietro ad un anonimo portone affacciato su di una stretta via, si nasconde il luogo più intimo ed intenso di questa città: il Giardino Giusti.
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Più che un giardino par essere uno scrigno segreto in cui fiori e piante profumano d’amore e raccontano della meraviglia visibile negli occhi dei grandi visitatori che nei secoli hanno camminato sui suoi ciottolati o trovato riparo all'ombra di un albero.
Imperatori, zar ed artisti sono rimasti meravigliati da questo scrigno e chissà se anche Alessandro I o Mozart, magari in dolce compagnia, hanno compreso il significato della parola “amore” percorrendo i terrazzi che poco a poco regalano viste sempre più uniche sulla città o perdendosi nel labirinto di siepi (uno dei più antichi d’Europa) o semplicemente osservando un fiore appena sbocciato.
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Il disegno e l’impostazione, all’italiana, attuale del giardino risalgono a metà Cinquecento e, seppur di dimensioni contenute, offre una molteplicità di situazioni ed elementi differenti: dal viale di cipressi collocato di fronte all’atrio d’ingresso, alle statue romane disperse nel giardino, dalle grotte artificiali alla terrazza panoramica cui si giunge dopo un lungo percorso.
Stendersi semplicemente su uno dei piccoli ed intimi prati, sentire il profumo della primavera nell’aria o attendere il tramonto osservando la città dall’alto saranno ulteriori piccoli grandi innamoramenti veronesi.
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Ma c’è un ultimo elemento in grado di far crollare qualsiasi certezza anche al baüscia milanese più accanito: scoprire che il suo amore per l’adorato risotto allo zafferano può essere sostituito da quello per sua maestà il risotto all’Amarone.
Questo piatto non sarà forse noto solo ai veronesi come accade ad esempio con il lesso e pearà o la pastissada de caval, ma di certo, pur essendo molto conosciuto, ci parla di sapori profondamente locali e radicati nel territorio.
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Riso Vialone Nano prodotto nella Bassa, formaggio Monte Veronese realizzato a nord della città e ovviamente l’Amarone, ovvero il vino rosso per eccellenza dal carattere corposo, deciso e prodotto unicamente in Valpolicella, poco fuori Verona insomma.
Più che un risotto sembra una vera storia d’amore tra tre prodotti unici che regalano al palato un racconto memorabile in stile Shakespeare.
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Probabilmente Giulietta e Romeo sarebbero clienti abituali del locale che prepara il miglior risotto all’Amarone della città. E proprio i due amanti più celebri della letteratura, in questa celebre ed antica bottega del centro, dove le sale hanno una luce calda e sulle pareti fan bella mostra bottiglie (parte di una delle cantine più ricche d’Europa), si innamorerebbero ogni volta di più di loro e del risotto che lentamente gusterebbero.
Cremoso e dal sapore intenso riesce, infatti, a farsi amare ad ogni forchettata, mentre il colore ricco riempie gli occhi fortunati per aver trascorso la giornata ad ammirare le meraviglie della città.

Non sarai uscito da un racconto shakespeariano, ma qui, in indimenticabile compagnia, mentre gusti questo risotto, ti renderai conto che quel momento vorresti non finisse mai e già penserai a quando potrai tornare nella città di Giulietta per trascorrere la giornata ad amarne ogni piazza, monumento, rivivere quel sentimento che solo il Giardino Giusti ti ha saputo dare e sentire ancora il gusto di quel capolavoro di risotto.
E capirai, quindi, che innamorarsi a Verona è davvero favoloso.
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Hanoi alcolica

5/19/2018

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Non si vive di solo cibo ed allora…
Immagina birrette fresche, tante birrette fresche.
Ora immagina che siano preparate in continuazione in baretti agli angoli di trafficate strade, dove all’ora dell’aperitivo decine di persone si accalcano per concludere la loro giornata bevendo qualche media e facendo un po’ di pr.
Immagina di conoscere casualmente un giovane famoso regista romano e di trascorrerci una serata insieme raccontandosi e perdendo il conto delle birre bevute e delle ore trascorse ad ascoltare aneddoti sulle riprese del suo ultimo film.
Ed infine immagina se tutto ciò invece di accadere nel centro della tua città, accadesse ad Hanoi, capitale vietnamita, dove il traffico è costituito solo dalle migliaia di motorini che sfrecciano senza regole, gli aperitivi non si sa nemmeno cosa siano, i bevitori hanno occhi a mandorla e quasi tutti origini cinesi, ma soprattutto ogni birra costa meno di 30 centesimi di euro.
Ecco ora puoi capire perché amerai di certo questa città…
Bia Hoi è la parola magica che dovrai ricordare per il tuo prossimo viaggio da queste parti. Questo, infatti, è il nome della pilsen più celebre del Vietnam, prodotta artigianalmente e completamente priva di conservanti. Questo vuol dire che viene consegnata quotidianamente ai bar (se così possiamo chiamarli…) in grosse cisterne, che i clienti saranno ben felici di dover per forza svuotare entro la fine della giornata.
L’assenza di controlli igienici su come la birra sia prodotta ed il fatto che venga spillata attraverso una sorta di canna dell’acqua in bicchieri che vengono “lavati” semplicemente immergendoli rapidamente in secchi pieni di liquido dal colore discutibile, rende il tutto un po’ più bello. Insomma una sorta di equivalente della birra dello street food, quello vero: origine incerta, igiene scarsa, ma soddisfazione molta!
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Prendersi una sbornia con questa street beer, con i suoi circa 3 gradi alcolici, non è semplicissimo, ma la facilità con cui si gusta e la scioltezza con cui scende compensa la scarsità di alcol e fa si che al piacere del bere questa bionda, si aggiunga lo spettacolo regalato dai locali alticci che brindano urlando e stando seduti su piccoli sgabelli in plastica chiaramente per bambini.
Altra peculiarità di questi birrifici di strada sono, infatti, i coloratissimi e bassissimi sgabellini su cui sedersi per bere. O almeno tentare di sedersi, perché pur essendo scomodissimi non puoi stare in piedi.
E questo perché sei praticamente stremato dalla giornata trascorsa nel caldo torrido per le strette vie dell’Old Quarter, senza una meta precisa ma perdendoti ad osservare la vita frenetica di venditori ambulanti, piccoli negozi di giochi in plastica, botteghe di artigiani, fashion store tarocchissimi e stamperie che riproducono le vecchie grafiche della propaganda anti americana.
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La guerra del Vietnam sembra così lontana, ma la vittoria del Nord (che proprio in Hanoi aveva la sua capitale) ha di certo dettato le sorti di tutto il paese, dove da allora è presente unicamente il Partito Comunista che governa e detta le linee dello sviluppo socio-culturale in maniera molto simile alle modalità del ben più noto governo cinese.
Tracce del tragico passato del paese si ritrovano ad esempio all’ “Hanoi Hilton”, soprannome con cui i soldati americani chiamavano la prigione Hoa Lo dove erano rinchiusi. Ad esempio in una delle sue lugubri celle trascorse sei anni John McCain, excandidato alla Casa Bianca, dopo che il suo aereo fu abbattuto dalle forze nordiste.
Costruita dai francesi nel periodo coloniale per rinchiudere e ghigliottinare i rivoluzionari vietnamiti, fu poi utilizzata dai vietnamiti stessi per “ospitare” i giovani soldati americani qui spediti per combattere a sostegno del Vietnam del Sud.
La visita sarà anche un pugno nello stomaco ma aiuta a comprendere come in ogni guerra vi siano, chiaramente, due punti di vista diversi ma soprattutto due modi totalmente differenti di raccontarla ai posteriori.
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Ancora oggi la propaganda vietnamita, seppur meno vigorosa che nel periodo bellico, continua a dare una lettura poco positiva dell’America, degli americani e soprattutto del loro intervento “imperialista e da invasori” degli anni che furono. Insomma i decenni trascorsi e la forza del capitalismo occidentale, che di fatto ha conquistato anche qui ciò che le armi non erano riuscite a controllare, non hanno intaccato la forza del pensiero unico che il governo tutt'oggi esige. Ecco che ad esempio Facebook qui non esiste ed ecco che nelle scuole si studia sì filosofia, ma solo attraverso gli scritti di Ho Chi Minh, il grande rivoluzionario socialista, statista e presidente del Vietnam.
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Propaganda o no, qui la vita continua imperterrita in giornate caratterizzate da una frenesia simile a quella visibile nei formicai. L’unico luogo di quiete della città pare essere il piccolo manto verde che circonda il laghetto in pieno centro città. Anche se non esisteva ancora la Bia Hoi con i suoi effetti alcolici sulle persone, gli antenati hanno tramandato di aver visto scomparire in questo lago una grande tartaruga tenendo con sé la spada magica con la quale Ly Thai To scacciò i cinesi nel XV secolo.
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A sud di questo specchio d’acqua si sviluppa il quartiere francese, che di suggestivo possiede ormai solo il nome, che evoca il passato coloniale di questo paese.
Attorno ad un altro lago, più a nord e di dimensioni maggiori, si è invece sviluppata in questi ultimi anni l’area più moderna della città. Qui espatriati europei e statunitensi vivono in ricchi condomini una vita parallela fatta di enoteche francesi, feste in ambasciate, cene in raffinati ristoranti indiani e lezioni di tennis tenute nei campi alla base dei grattacieli residenziali. Se non avete un amico qui residente da incontrare e con cui vivere la città più da abitante che da turista, non c’è motivo di spingersi fino a questo quartiere, meglio rimanere allora dalle parti del Quartiere Vecchio, con i suoi odori, gli stretti edifici accalcati uno accanto all’altro e soprattutto i piccoli bar che servono la Bia
Hoi.
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Ed ecco che ogni giorno ad Hanoi alla fine ci si ritrova seduti quasi per terra, spalla a spalla con non molto freschi commercianti cinesi, in un caldo soffocante ed avvolti dal suono perpetuo dei clacson degli scooter, suonati di default a distanza di pochi secondi da ciascun rider. Ed intanto le birre scendono… terzo, quarto, quinto bicchiere ed hai speso poco meno di un’euro e mezzo.
E gli happy hour sui Navigli milanesi non ti mancheranno per niente.
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La moschea del mare

5/5/2018

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Sì, bellissima Marrakech. Il perdersi nel souk; contrattare l’acquisto di oggetti stupendi (di cui però una volta tornato a casa non saprai cosa fartene); gli incantatori di serpenti e le tatuartici di henné di piazza Jemaa el Fna; la stupenda delicatezza dei giardini Majorelle, dove sentirsi un po’ Yves Saint Laurent, che gli acquistò dopo essersene innamorato follemente.
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Ma per questa volta dimentichiamoci dei pranzi sulle terrazze della piazza più celebre del Marocco, delle passeggiate lungo le mura che cingono il nucleo cittadino più antico e dei bambini che si offrono di fare da guida tra le vie del mercato. Dimentichiamoci Marrakech, affascinante e bellissima, per scoprire un Marocco, conosciuto sì, ma un po’ meno battuto dai flussi di turisti europei.

Celebre più per aver dato il titolo ad uno dei film cult della storia del cinema (qui ambientato anche se girato completamente negli States), più che per le sue attrazioni, Casablanca non è solamente una pellicola tanto vecchia quanto memorabile, ma anche un’interessante meta per chiunque voglia scoprire un volto diverso del Marocco.
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Questa città almeno una giornata se la merita, se non altro per poter cenare al Port de Peche, ristorante sul porto dove europei qui per affari e marocchini benestanti si incontrano davanti ad enormi piatti di pesce pescato al largo di quella che non è solamente la più grande città del Marocco, ma una delle maggiori aree metropolitane d’Africa.
Fritture di ogni tipo ed il piatto con pesce e gamberi gratinati con besciamella sono i pezzi forti di questo ristorante, che non sarà economicissimo quanto gli altri, non sarà il più tipico del Marocco, ma è di certo il perfetto connubio tra sapori europei, tradizioni locali e un pesce freschissimo. Tajine, pastilla e cous cous sono un must marocchino, ma possono attendere per una sera: dopo una giornata trascorsa sferzati dalla brezza marina ed avvolti dal profumo dell’oceano, la voglia di cenare con del pescato del giorno è troppo forte.
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Il gratin è buonissimo. Sa di mare ed è decisamente gustoso. Ma pare quasi strano ritrovarsi seduti a quella che sembra essere una trattoria di mare mezza trasandata ma con camerieri in livrea e ricchi marocchini che fanno portare ostriche e scampi ai loro ospiti occidentali.
D'altronde questa è una città particolare un po’ in generale: Casablanca è ovviamente caotica ed è una perfetta commistione di traffico, memorie coloniali, spinta verso la modernità e una popolazione estremamente variegata.
Ad ogni incrocio emarginati, homeless, ambulanti improvvisati e mutilati prendono d’assalto ammiraglie tedesche nere con vetri scuri dietro cui si celano i nuovi ricchi di questo paese.
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L’ormai ultimata stazione per i treni d’alta velocità fa da contraltare agli edifici senza intonaco che rimandano a suggestive ambientazioni di guerre mediorientali.
I giovani vestiti alla moda popolano la passeggiata lungomare sferzata dalle onde dell’Atlantico, ascoltando musica rap francese da casse bluetooth connesse agli smartphone. I più anziani, nelle loro lunghe tuniche tradizionali, gesticolano animatamente seduti tra le vie della vecchia medina, ovviamente davanti ad un tè alla menta. Mentre un sole deciso, forte, africano, si fa spazio tra le bassi nubi che sanno di oceano.
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Al di là di ovvietà e banalità non si può non riconoscere come questa città sia un vero connubio tra il volto più tradizionale, arabo ed antico del Magreb ed una spinta verso il nuovo, le influenze occidentali che fanno ormai i giovani di mezzo mondo un po’ tutti simili tra loro, nelle idee, nell’aspetto e negli interessi. È la globalizzazione baby!
Non è un caso che qua si trovi il centro commerciale più grande d’Africa, così come non è un caso ritrovarsi in locali trendy che annullano le distanze tra questo continente e la Londra di Soho.
I viali dal respiro parigino si alternano a vicoli in cui il richiamo alla preghiera dei muezzin sembra essere ancor più forte e permeante.
I minareti svettano numerosi, come in ogni città musulmana, ma è quello della moschea Hassan II che si eleva più di tutti. Per l’esattezza si tratta del minareto più alto del mondo, sulla cui cima posta a 210 metri di altezza un raggio laser punta verso La Mecca. Ancora una volta tradizione e novità che si incontrano.
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La moschea è bellissima, completata nel 1993 e terza nel mondo per dimensioni, è riccamente decorata e possiede portali di altezze esagerate. Sembra un’opera fuori scala, grandissima tanto da essere in grado di confrontarsi con la forza e la vastità dell’oceano su cui si affaccia e da cui un flusso continuo di vapori si innalza andandola ad avvolgere.
Una piazza altrettanto sconfinata la cinge sul lato opposto a quello del mare. Qui all’ora del tramonto folle di ragazzi e famiglie si ritrovano avvolti da un’atmosfera frizzante ed allegra: è questo il momento migliore per ammirarne la bellezza. Infatti, quando il sole basso la illumina intensamente e le nubi del mare la sferzano, il tempo vola mentre se ne osservano i dettagli o mentre si accennano conversazioni con i locali. È proprio questo il luogo ed il modo migliore per trascorrere il tempo prima di raggiungere il porto per dedicarsi al pesce gratin che attende per la cena. Anche se non sarà semplice allontanarsi da questa immensa moschea del mare, la cui forza visiva ed attrattiva è davvero notevole e la rendono la protagonista assoluta della città.
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Parte del fascino è certamente dovuto alla sua collocazione fronte oceano, dalla cui nebbia emerge maestosa, come se fosse stata trasportata dall’Atlantico in dono a questa città, cuore caotico e pulsante più che mai di un Marocco che affascina ogni viaggiatore.
E vale davvero la pena farsi affascinare anche da Casablanca, dopo magari essersi fatti incantare da Humphrey Bogart che saluta per sempre la sua Ingrid Bergman.
“Buona fortuna bambina”, buona fortuna Casablanca!
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Di tempio in tempeh

4/21/2018

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Immaginate di trascorrere le giornate visitando templi mistici, cascate nella giungla e vulcani attivi. Immaginate di non vedere l’ora che suoni la sveglia per buttarsi in un tour senza sosta di luoghi incredibili e di concludere una lunga giornata di fotografie, visite e sorrisi gustando una cena a base di… soia fermentata. Ok, non suona benissimo, ma questo cibo, celebre tra vegetariani e vegani poiché proteico quanto una gustosa bistecca, è uno dei simboli culinari dell’Indonesia ed in particolare di Bali.
La preparazione? Semi di soia gialla vengono ridotti in poltiglia, poi si aggiunge un fungo… lasciamo perdere! Ciò che interessa è il mangiarlo, sentirne il sapore, particolare senza dubbio e come il ricordo che un piatto gustato in viaggio ci fa subito portare il pensiero ai luoghi visitati ed alle atmosfere respirate.
Così accade con il tempeh che lo si mangi fritto, al vapore, accompagnato da verdure o riso ha un sapore talmente unico e deciso che si fa notare e rimane impresso, così come il luogo dove se n’è fatta incetta. Ecco che, per quanto mi riguarda, il tempeh equivale ad Ubud, ovvero l’altra Bali, o meglio: la vera Bali.
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Se esiste, infatti, una parte di quest’isola estroversa, chiassosa, festosa e godereccia (vedasi Seminyak, Canggu e compagnia), l’altra faccia dell’isola è meditativa, serena, fortemente spirituale ed apprezzata tanto dai vlogger di viaggio quanto dagli appassionati di yoga occidentali, che qui giungono a flotte per ritiri intensivi.
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Ubud, incastonata tra colline lussureggianti, risaie e porzioni di giungla impenetrabile, è il vero cuore pulsante dell’isola. I templi antichi, i santuari hindu e mistiche credenze locali hanno reso questa cittadina, nel tempo, il luogo ideale in cui far crescere un approccio differente alla vita quotidiana. Centri yoga, spazi per la meditazione e locali che servono solo centrifugati e piatti in cui i germogli di soia sono i veri protagonisti, si sono diffusi rapidamente dando origine a un luogo in cui persone da tutto il mondo giungono per trovare il proprio “io”, la serenità persa e magari incontrare il guru più di tendenza.
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Se è imperdibile la visita alla foresta in pieno centro popolata da centinaia di scimmie non troppo socievoli, è ugualmente impensabile giungere a Bali senza trascorrere almeno una paio di giorni a girovagare per templi, cascate, risaie intorno ad Ubud.
Goa Gajah, Tegallalang, Pura Gunung Kawi, Tegenungan, Tirta Empul sono alcuni dei nomi tanto impronunciabili quanto indimenticabili. Sia chiaro: Bali è presa d’assalto dai turisti e la visita a ciascuna delle sue perle richiede pazienza. Tra comitive di cinesi urlanti, statunitensi di mezz’età sulle tracce di Julia Roberts (che qui ha “amato” in Mangia Prega Ama), italiani riconoscibili come sempre da chilometri di distanza e altezzosi backpacker francesi e poi anche indiani, australiani e non solo, ci si trova immersi come in un grande parco divertimenti dove però le piantine di riso sono vere e le antiche costruzioni sono in pietra e non in cartapesta.
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Simboli, su tutti, della bellezza di questa porzione di Bali presa d’assalto dal turismo sono le risaie di Tegallalang e lo straordinario tempio dell’acqua Tirta Empul.
La luce del tramonto rende le prime ancora più affascinanti con il loro plasmare le leggere alture in terrazzamenti punteggiati da palme altissime. Ma scordatevi lo scatto perfetto di questa meravigliosa interpretazione umana del paesaggio: le file di persone che camminano per queste risaie e che percorrono i gradini fangosi ricavati nella terra, rovineranno i vostri scatti per Instagram.
Il Tirta Empul è probabilmente uno dei templi più suggestivi che si possa vedere nel sudest asiatico. Qui migliaia di hinduisti giungono per immergersi in un percorso di preghiere nelle vasche riempite dalle acque che scorgano dal sottosuolo.
Statue adornate con abiti poiché ospitanti spiriti e l’intenso profumo degli incensi che ciascun pellegrino tiene tra le dita, concorrono a creare un’atmosfera suggestiva, in cui ci si sente quasi di troppo, anche se poi si vedono decine di occidentali intenti in abluzioni con una GoPro tra le mani al posto del cestino fatto di foglie contenete le offerte da lasciare alle divinità.
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​La visita prosegue al Goa Gajah, una caverna misteriosa a cui si accede attraverso la bocca del dio Bhoma. Più che un tempio vero e proprio, un luogo sacro agli hindu già nel XI secolo, ancora oggi avvolto dal mistero e da un fascino che su quest’isola sembra permeare tutto. Si potrebbero visitare poi il tempio Ulun Danu Bratan realizzato su un’isolotto nel lago a nord di Ubud.
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Ed infine, concludere una lunga giornata di "pellegrinaggio” con una lezione di yoga o di meditazione al tramonto. Raccolta la massima serenità interiore possibile si arriva così all’ora di cena con la voglia di sedersi scalzi ad un warung, ovvero i ristoranti tipici balinesi, per gustare del sate (spiedini di pollo con salsa satay) e, dopo una giornata trascorsa tra i templi, buttarsi finalmente sul tempeh.
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La balena nel piatto

4/13/2018

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​Sarà forse moralmente riprovevole, poco rispettoso dell'ambiente e attirerà l'odio di molti, ma mangiare la carne di balena in Norvegia non solo è un must, ma un’esperienza culinaria notevole.
Anche solo assaggiarla è sbagliato, scomodo e antipatico come gesto, soprattutto conoscendone la storia, le problematiche e dopo averle viste magari sbuffare dal vivo al largo dell’Islanda. Con qualche rimorso e con la curiosità che batte il rispetto (come sempre) ecco che alla fine se si giunge a queste latitudini, è facile finire ad assaggiare un prodotto tanto tipico della tradizione. In generale carne e pesce da queste parti rappresentano la quasi totalità della cucina: dall'arrosto di renna, all'hamburger di alce, passando per l’epico salmone norvegese. Assumere proteine è un’usanza quotidiana.
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​I paesaggi spettacolari, i fiordi più celebri del mondo, cittadine moderne ed eco-friendly sono decisamente il motivo principale per cui la Norvegia merita una visita. Per non parlare delle aurore boreali, che nelle latitudini più alte regalano visioni uniche.
Ma anche a livello culinario i norvegesi si sanno difendere bene con una varietà di piatti pari a quelle delle ambientazioni in cui immergersi per mangiarli: si può gustare un delicato salmone in un raffinato ristorante nel centro di Oslo mentre al di là del vetro si guardano sfrecciare silenziose le infinite Tesla che popolano le strade o ci si può ritrovare seduti ad un baracchino del porto di una qualche cittadina a mangiare smørbrød, ovvero una grande fetta di pane ricoperta di gamberetti freschi che sanno di mare, di mare del nord.
E perché no una bella impepata di cozze in stile norvegese, servita in una pentola ed accompagnata da patatine fritte, mentre si attendere di imbarcarsi sul traghetto per attraversare il fiordo.
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Ciò che rende speciale la Norvegia, al pari delle sue nazioni sorelle scandinave, è la natura forte, talvolta estrema, incredibilmente rispettata ed esaltata dall’uomo con le architetture, con progetti urbanistici e con scelte ambientali all’avanguardia.
Non è raro imbattersi in percorsi pedonali ben studiati immersi nel verde o in piccoli edifici di legno e vetro in cui entrare liberamente e sedersi per ammirare il paesaggio, come non è inusuale percorrere spettacolari e sinuose strade che sottolineano l’andamento del terreno scendendo a valle. L’anima della Norvegia risiede tutta qui: nel come l’uomo riesca, con piccoli o grandi interventi, a sottolineare l’elemento naturale aumentandone la forza espressiva.
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Questa capacità, tutta norvegese, si esprime anche in cucina nei piatti pilastri della tradizione, nei quali i prodotti di origine animale vengono trattati, cucinati, insaporiti per esaltarne il gusto e creare esperienze dal sapore deciso.
La balena va forte nella versione bistecca, ma forse la si apprezza meglio in un delicatamente deciso carpaccio servito solo o in involtini con crema di formaggio. Fette abbastanza spesse, colore forte: è scura, ricorda molto la bresaola nostrana ma ha un sapore decisamente più intenso e con un sentore di affumicato spinto, che quasi contrasta con la delicata e morbida consistenza. In poche parole: si fa ricordare! Spiace dirlo ma è davvero buona. A quanto pare ha apprezzato molto questa prelibatezza anche la cara Pippa Middleton, che pur sapendo a quali critiche sarebbe andata incontro ha
espresso apprezzamenti per il carpaccio di balena degustato. Se lo dice Pippa c’è da fidarsi insomma.
Certo, forse da questo punto di vista i norvegesi non rispettano molto il loro amato ambiente, ma come si può criticare una tradizione secolare insita nell’essere di un popolo?
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Questione non semplice, meglio allora dedicarsi al percorrere le isole Lofoten, fermandosi
in villaggi dai nomi impronunciabili, dove fanno base i pescatori di merluzzo. È, infatti, nel mare attorno a queste isole che si pesca quello più pregiato, trasformato poi in stoccafisso e baccalà ed esportato per la quasi totalità in Italia: il legame delle Lofoten col nostro paese è fortissimo ed è normale vedere lungo le strade un continuo di tricolori italiani che sventolano in queste terre remote nordiche.
Le Lofoten sono il perfetto compromesso per chi vuole assaggiare il lato più intenso e selvaggio della Norvegia, senza però aver voglia o tempo di spingersi fino alle remote Svalbard perse nel Mar Artico. Emozioni naturali si possono comunque vivere nei fiordi più celebri e facilmente raggiungibili, solcati quotidianamente da numerose navi da crociera, rovinando un po’ la poesia del luogo, ma regalando anche un piacevole contrasto agrodolce tra una natura spinta e una decisa presenza umana.
Non si smette mai di stupirsi della meraviglia di queste insenature anche dopo aver visto una serie di fiordi in successione, da quelli più affollati a quelli più piccoli e remoti, ognuno regala paesaggi straordinari e silenzi profondissimi. Qui si vive una natura pura, che se pur forte ed intesa non incute timore ma affascina con i suoi boschi fittissimi ed il correre veloce delle nuvole spesso basse. Il sole, talvolta, squarcia il cielo penetrandolo con pochi raggi che concorrono ad enfatizzare dei paesaggi mozzafiato, altre volte la nebbia avvolge piccole porzioni di mare che paiono più laghetti per quanto sono circondate dai monti. È una natura poetica, romantica, che affascina e con forza si innalza a protagonista assoluta di questo paese.
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Ma se dopo aver percorso chilometri e chilometri su strade in mezzo ai boschi senza aver incontrato alcuna persona, se dopo aver ammirato arcobaleni comparire in mezzo ai fiordi o respirato l’aria purissima da uno strapiombo sul mare, si sentisse il bisogno di tornare a situazioni più urbane, Alesund e Bergen sono mete imperdibili.
La prima è la destinazione perfetta per camminare nel centro cittadino o per avere una vista eccezionale dopo aver affrontato i 418 gradini che portano ad un belvedere indimenticabile da cui si può apprezzare tanto il centro abitato quanto il paesaggio naturale marino che lo circonda. Alesund non offre molto altro, ma anche solo immergersi nell’atmosfera di questa pittoresca e tipicissima cittadina del nord vale una mezza giornata.
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​Al porto di Bergen si può mangiare pesce freschissimo appena pescato e preparato direttamente dai banchetti del mercato: un’ottima pausa pranzo per spezzare la visita del Bryggen, ovvero il quartiere storico dove le tradizionali costruzioni in legno con tetti spioventi ed ormai tutte ricurve si alternano generando un fronte di facciate colorato che celano vicoli stretti in cui perdersi. Un vero spettacolo insomma, che però mai potrà competere con gli scorci che questo paese offre sulla sua natura e probabilmente anche qui Pippa sarebbe d’accordo.
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La Bali delle bowls

3/25/2018

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Promette di colpirti, emozionarti e divertirti con i suoi colori intensi, le sue memorabili risaie a terrazza, i luoghi pieni di magia e le onde perfette per il surf. Promette di essere indimenticabile. E ci riesce. Ti stupisce, ti illumina e il suo ricordo non ti abbandonerà mai. Dalle coste del sud-ovest, tanto rumorose quanto spettacolari, ai paesaggi da cartolina dell’entroterra, dove i locali “vestono” le statue e gli alberi più vecchi poiché dimore di antenati e spiriti: Bali è uno di quei rarissimi luoghi nel mondo dove le immense aspettative, che si hanno prima di arrivare, vengono rispettate.

​La vita cool, importata dagli australiani, fatta di surf, insalate dietetiche a pranzo e birrette al tramonto incontra le tradizioni secolari dei locali, la cui giornata è scandita da ritmi spirituali, dove meditazione e preghiera sono pilastri imprescindibili. Bali è il perfetto punto di incontro tra gli aspetti migliori dell’occidente e quelli più profondi dell’oriente. L’isola induista è indonesiana solo per caso, totalmente altra cosa rispetto all'essenza della più popolosa nazione musulmana al mondo.
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​Il cuore più occidentale dell’isola risiede in località come Seminyak e Canggu, divenute
negli anni i veri epicentri per espatriati, surfisti e turisti alla ricerca della Bali meno
tradizionale e più trendy. È in queste cittadine costiere che, oltre a respirare lo smog degli
ingorghi stradali, si entra nella parte più moderna di Bali, dove a locali stile Miami, gallerie
d’arte contemporanea e boutique di moda si alternano ristoranti vegan e sobrie ville con
piscina immerse nel verde. Non è inusuale però imbattersi in processioni hindu lungo le
strade o assistere a donazioni portate quotidianamente nei piccoli tempietti disseminati ad
ogni angolo delle cittadine, mentre i commessi e proprietari dei negozi, che vendono Nike
o Havaianas, accendono incensi e pregano le divinità affinché possano avere clienti.
Sacro, profano, oriente, occidente, antiche tradizioni e nuove mode si incontrano dando
vita ad uno dei luoghi più affascinanti del pianeta.
​
Lungo questa porzione di isola, che corre dalla punta più meridionale fino al Tanah Lot
Temple, si trovano anche alcune perle rare della Bali più antica, come appunto questo
celebre tempio, sferzato dalle onde e amato dai turisti (una marea di turisti) per la sua
location suggestiva e per le continue processioni dei locali.
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​Collocato su un grosso scoglio a pochi metri dalla riva, può essere raggiunto solo quando
la marea lo permette ed è una delle mete più amate e fotografate soprattutto durante il
tramonto. Questa è anche, infatti, la costa dei tramonti. Ogni sera incredibili ed
emozionanti che si scelga di ammirarli sorseggiando un drink a La Plancha, il locale sulla
sabbia più famoso di Bali, che con i suoi ombrelloni colorati ha invaso Instagram negli
ultimi anni, o che si scelga di vederli avendo davanti a sé l’Uluwatu Temple, collocato in
cima alle rocce che cadono a picco sul mare. Tanto magico, quanto affollato, un tramonto
all’Uluwatu è un’esperienza indimenticabile, anche se appena il sole scompare nel mare
bisogna correre all’uscita per evitare l’ingorgo di auto.
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​È proprio tra l’Uluwatu e il Tanah Lot, due dei sette templi di mare, che si sviluppa una
porzione di isola ormai casa dei surfisti, con spiagge e break adatti tanto ai principianti
quanto ai professionisti, che qui giungono ogni anno per partecipare alle gare del world
tour.
​
Nei decenni l’influenza del surf ha plasmato il territorio e le sue tradizioni, ha permesso lo
sviluppo di un’atmosfera rilassata fatta di casette vicino al mare, bar in legno con
cuscinoni, attenzione verso un’alimentazione sana e locali perfetti per aperitivi dopo una
giornata trascorsa a cavalcare le onde.
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​In un mix tra atmosfera surf della California, spirito hippie di Ibiza anni ’60 e spinta verso il
trendy alla Miami Beach, si respira un’aria vibrante sia che si scelga di fare un tour delle
spiagge più spettacolari o dei templi più mistici, sia che si partecipi ad una degustazione di
infusi e tè locali in mezzo alle risaie allagate, sia che si preferisca trascorrere la giornata
saltando da un locale all’altro a ritmo di birrette.
​
Da Dreamland Beach, dove immense scogliere racchiudono una spiaggia in cui
trascorreresti ore a guardare le acrobazie dei surfisti sempre in mare con qualsiasi
condizione meteo; fino a Padang Padang Beach, resa celebre dal film Mangia Prega Ama;
passando per Bingin, raggiungibile dopo una lunga discesa a scalini e dove alberghetti e
bar in legno, sostenuti da alti pilastri impiantati sulla spiaggia, crescono a ridosso del
mare.
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​Una lezione di surf con le onde abbordabili di Kuta Beach, una Bintang (la birra per
eccellenza bevuta sull’isola) ghiacciata per aperitivo all’Old Man’s di Canggu o una
grigliata di pesce piedi nella sabbia a Legian. Le giornate trascorrono veloci tra visite
culturali e ore di svago, sempre immersi un’atmosfera unica.
È proprio l’atmosfera ciò che colpisce di Bali e, in particolar modo di questa porzione di
isola. Vi è un’energia indescrivibile, che nasce dalla commistione tra oriente ed occidente.
Ed espressione culinaria di questa sinergia, che qui trova una sintesi, sono le bowls, le
vere rappresentati della Bali contemporanea, una delizia tanto per il palato quanto per gli
instagrammer. Originarie della California, ma ormai elemento proprio di Bali, le bowls
rispecchiano ogni lato dell’isola: quello salutistico, colorato, orientale, occidentale,
moderno, locale.
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Le “ciotole”, oggetti per eccellenza della cucina orientale, possono essere di qualsiasi tipo:
di frutta, vegetariane o con pesce. Questo contenitore, simbolo dell’Asia, viene riempito di
prodotti locali ma in chiave occidentale.
L’unione tra sapore, estetica e l’esser cibo sano hanno prontamente fatto divenire queste
bowls un fenomeno di moda partito dall’isola indonesiana e giunto in città come Londra e
New York, fino anche a Milano, dove locali specializzati nella loro preparazione stanno
nascendo di continuo.
E se le bowls indonesiane viaggiano nel mondo, il mondo giunge a Bali: ormai nella lista di
viaggi da fare di chiunque e meta prediletta di youtuber e travel blogger, che qui trovano i
luoghi ideali da raccontare e riprendere, in giornate trascorse a visitare templi stupendi,
​camminare su spiagge infinite e fotografare le colorate bowls, le cui cucchiaiate
scandiscono le giornate balinesi.
Per colazione o nel pomeriggio è perfetta quella a base di smoothie di dragon fruit
arricchita con mango, scaglie di cocco, banana, fragole, fiocchi vari stile muesli e un
goccio di miele; a pranzo una healthy salad bowl con quinoa e magari a cena un bel
hamburger australiano per compensare l’approccio troppo vegan della giornata.
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​Ecco che i pasti diventano cornice coerente con il luogo, momenti topici della giornata
anche se interrompono visite a luoghi stupendi e surfate su onde epiche. E cosa meglio
delle bowls di Bali sa esprimere i colori, la magia, l’atmosfera di questa parte di isola?
Fresche, sane, cool e instagrammabili, le bowls riescono ad essere perfettamente
rappresentati questa porzione di Bali dove ogni angolo sembra fatto per esser fotografato,
ogni onda per essere surfata ed ogni attimo della giornata per essere vissuto alla grande,
una ciotola alla volta.
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Cambogia: storie da ricordare

3/12/2018

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Sarebbe facile, quasi banale, parlare della Cambogia descrivendo l’immensa bellezza di
Angkor, uno di quei rarissimi luoghi nel mondo “dove ci si sente orgogliosi di essere
membri della razza umana” come scrisse Tiziano Terzani.
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 ​Sarebbe scontato raccontare la Cambogia attraverso i sorrisi della sua popolazione, che
solo meno di 40 anni fa subiva uno dei genocidi più atroci nella storia dell’umanità.
La Cambogia è fatta di mille sfumature, sensazioni, piccoli momenti di vita nella giungla,
dentro a grotte sconosciute, in riva a spiagge deserte o in mezzo ad affollati mercati. Un
susseguirsi di storie, che giorno dopo giorno, sommandosi, lasciano un ricordo indelebile.
Un viaggio attraverso questo paese porta a conoscere l’essenza più profonda dell’oriente
in un susseguirsi di paesaggi, esperienze umane, sapori intensi.
Ed è proprio grazie ai gusti piccanti, delicati, armoniosi e unici per i quali un piatto
cambogiano può rimanere un piacevole ricordo.
La forza di un cibo del resto è direttamente proporzionale a quanto riesce a colpirci con i
suoi profumi e sapori e, perché no, a quanto riesce ad emozionarci. Ma la vera forza di un
piatto è quando diviene ricordo indelebile legato al luogo, ai momenti vissuti ed alle
esperienze fatte. Ed ogni piatto mangiato in Cambogia possiede questa energia, questa
forza.
Era la sera del 24 aprile, seduti ad un ristorante non facevamo più tanta attenzione allo
spettacolo che il sole stava dando cadendo nel mare. Era il nostro ventesimo tramonto
cambogiano ed ogni sera il cielo ​si tingeva di colori emozionanti. Eravamo quasi ormai
abituati a cotanta bellezza.
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​Non eravamo però ancora del tutto abituati al numero infinito di ratti che popola ogni
cittadina e villaggio della Cambogia, quando, all’improvviso, ne sentimmo uno correre
sotto al nostro tavolo.
Quello che poteva sembrare un tenero micio era in realtà uno dei tanti topi, veri
protagonisti di questo paese, che correva in mezzo al ristorante.
Due ragazze francesi sedute accanto a noi, urlando, si alzano in piedi sulla sedia, ma
dopo qualche attimo di frenesia torna la quiete quando arriva finalmente al tavolo l’Amok,
ovvero il piatto più celebre della cucina cambogiana.
Questa prelibatezza khmer è un ricco concentrato di sapori e sa essere al tempo stesso
tanto delicato quanto intenso. Un filetto di pesce freschissimo arricchito dal Kroeung
(ovvero un mix di erbe e spezie) e cotto con noccioline, uova e latte di cocco. Servito in
una zuppetta o racchiuso da foglie di banana. La delicatezza del pesce incontra l’intensità
delle erbe, mentre la freschezza del cocco arricchisce il palato.
Pur avendolo gustato con i piedi alzati dal pavimento per evitare ulteriori spiacevoli
passaggi sotto al tavolo, il ricordo di quel piatto è forte e si porta con se tutto ciò che era
accaduto quella sera.
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​Questo è solo uno degli innumerevoli ricordi culinari che possono accompagnare il
viaggiatore in questo affascinante paese del sud-est asiatico.
Un piatto di riso con verdure mangiato all’ombra di un immenso albero in mezzo alla
giungla durante la visita delle rovine del Ta Prohm, tempio divenuto celebre poiché
location delle peripezie di Angelina Jolie nei panni di Lara Croft.
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​I gamberi in latte di cocco e curry, che riportano alla mente Battambang, cittadina che si
raggiunge con 7 ore di navigazione sul fiume Sangkae, attraverso villaggi galleggianti i cui
abitanti al passare della barca escono dalle loro case (singole stanze che ospitano intere
famiglie) per salutare o semplicemente osservare, incuriositi, gli occidentali di passaggio.
Il celebre granchio di Kep, cucinato con l’altrettanto famoso pepe di Kampot, gustato dopo
un trekking in mezzo alla giungla del parco nazionale, dove una nuvola iridescente
apparve tra le chiome degli alberi.
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​Il pollo con anacardi, un classico della cucina orientale, mangiato però con in sottofondo
una delle canzoni più straordinariamente trash mai sentite prima: Chak Teok Dong. In tutta
la Cambogia, dai villaggi fluviali alla capitale, era possibile sentire questo capolavoro
contemporaneo sparato in loop a tutto volume da impianti stereo di dimensioni colossali.
​Era la canzone del Khmer New Year 2017, che ho avuto la possibilità di vivere durante i
quasi dieci giorni trascorsi a Siem Reap per visitare Angkor e celebrare, appunto, questa
festività incredibile in tre serate di folli festeggiamenti con pistole d’acqua e borotalco in
segno di purificazione e buon augurio.
Il viaggio ha attraversato, poi, tutta la Cambogia passando per villaggi meno noti, per le
rigogliosi campagne e lungo le strade meno battute, tutti luoghi dove è possibile cogliere
l’essenza vera di questo paese.
Così come avviene per esempio a Kampot, dove non vi sono particolari monumenti o
attrazioni da visitare se non pochi edifici coloniali francesi ed un mercato dove gli odori più
delicati sono quelli del pesce essiccato al sole e della carne esposta ai 37 gradi (se non di
più) e ricoperta di mosche.
A Kampot si vive in un’atmosfera scandita dal lento e costante fluire del fiume Mekong,
lungo cui sedersi a sorseggiare una birra ghiacciata. La visita in una delle innumerevoli
aziende che producono pepe è d’obbligo, dove assaggiare questi grandi chicchi neri ​intensi aiuta a comprendere perché questa cittadina sia famosa nel mondo.
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Nella capitale Phnom Penh si prova un duplice dolore: da un lato dato dalle ancora visibili
atrocità compiute dal dittatore comunista Pol Pot sul suo popolo e dall’altro dal disastroso
processo di globalizzione che sta omologando tutte le capitali asiatiche facendone perdere
tanto il fascino quanto le peculiarità.
A Kampong Cham è possibile attraversare il Mekong grazie ad un ponte in bamboo,
distrutto ogni anno durante la stagione delle piogge e ricostruito; mentre a Kratie, nel
mezzo del celebre fiume, testimone dei disastri della guerra in Vietnam, si trova l’isolotto di ​Koh Trong, percorribile solo in bici e dove si trova un unico ‘ristorante’ (in realtà si mangia
a casa di una famiglia) che serve solo noodles con verdure e uova.
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​Ogni giorno una storia nuova, un piatto nuovo, un ricordo differente, che sia in corsa su un
tuktuk, seduti ad un ristorante o durante un trekking in mezzo alla giungla.
Sorrisi, afa, momenti indimenticabili, roditori, paesaggi unici e cibi deliziosi sono una
costante in un viaggio in questa terra meravigliosa. Ah, ovviamente sempre presente
anche il Morning glory, ovvero lo spinacio d’acqua, utilizzato quasi in ogni piatto e coltivato
ovunque. Ogni giorno un ricordo diverso, una storia nuova, dicevamo… beh quindi:
“What’s the story morning glory?”
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Njeguški razanj amore mio

2/27/2018

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​Vi sono viaggi avventurosi alla scoperta di nuovi mondi, viaggi rilassanti che si trasformano in
vacanze sotto l’ombrellone, ci sono poi city break e settimane rubate in cui il primo volo disponibile
è quello migliore per fuggire in una realtà diversa.
Non saprei dire quel viaggio in Montenegro cosa fosse, non so nemmeno perché ci andai, ma ora
so perché ci vorrei tornare.
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​Un tour on the road mi conduce a Cetinje, che è probabilmente il luogo più strano del Montenegro:
incrocio tra atmosfera balcanica e realtà montanara fuori stagione, una sola via principale
pedonale (senza però neppure un negozio) e qualche edificio storico un tempo sede di
ambasciate. Ebbene sì, questa cittadina da 16 mila abitanti era la capitale di uno stato.
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Clima uggioso, un “grigio milanese” e un’umidità penetrante, insomma la condizione perfetta per
chiedere consiglio su dove mangiare e immergersi in quella che è una delle attività più
straordinarie che un viaggio offre: scoprire nuovi piatti, cibi che raccontano la loro terra di
provenienza e le persone che la abitano.
La scelta non è ampia e quasi obbligatoriamente si finisce al Kole, ristorante via di mezzo tra un
bar sport italiano e un kitsch night club russo: legno alle pareti, televisione accesa, camerieri che
mangiano tra una comanda e l’altra, sedie rivestite (alcune in velluto), specchi: proprio quello che
cercavo!
Menù senza fine, come in ogni ristorante montenegrino con liste interminabili di insalate
freschissime che fanno da contraltare ad un imprecisato numero di piatti no-vegan. In Montenegro
con la carne non si scherza: grigliata, impanata, arrotolata, di agnello, manzo, maiale, filetti,
salsicce, spiedini, servita sempre su vassoi immensi in grandissime porzioni.
È d’obbligo lanciarsi sulla specialità della casa: il Njeguški razanj.
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​Ok, non si presenta benissimo forse, ma questa via di mezzo tra arrosto cotto allo spiedo e
involtino ripieno è una sublime sintesi di questa terra.
Si parte dal formaggio locale: grattugiato, quasi stile Grana sui maccheroni, ad arricchire l’esterno,
mentre cremoso e fuso all’interno degli involtini, dove fa perfetta coppia con il Njeguški pršut,
ovvero uno straordinario prosciutto prodotto nell’omonimo villaggio a 20 km da Cetinje, simile al
nostro crudo ma in versione affumicata. Insomma uno di quei prodotti locali che quando scopri sei
fiero di te stesso e te lo spendi tra i primi argomenti quando qualcuno, una volta tornato, ti chiede
com'è andato il viaggio.
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​Porzione enorme e meno male, perché questi involtini/salsicciotti arrosto sono squisiti.
Consistenze differenti e diversi sapori ricchi, buonissimi, certamente esaltati dalla cottura su una
speciale piastra in lava vulcanica, di cui il cameriere sembra andare molto fiero.
Anche l’eccezionale contorno di patate dell’orto fritte passa in secondo piano.
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​Un piatto, insomma, che vale il viaggio a Cetinje, che, anzi, vale il ritorno in Montenegro.
E pensare che questa cittadina è famosa per aver dato i natali alla principessa Elena. Chi è? Beh,
la moglie di Re Vittorio Emanuele III, ovvero la bisnonna del mitico Emanuele Filiberto… sì, quello
che con Pupo a Sanremo cantava “Italia amore mio”.
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    Davide

    Architetto per caso, viaggiatore per scelta. Fotografo a tempo perso e buona forchetta a tempo pieno

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